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 CARATTERI DEL PENSIERO E DELLA CIVILTA INDIANA

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MessaggioTitolo: CARATTERI DEL PENSIERO E DELLA CIVILTA INDIANA   CARATTERI DEL PENSIERO E DELLA CIVILTA INDIANA Icon_minitimeMar Ago 17, 2010 10:24 am




Una prima caratteristica che ci colpisce nell'antica cultura indiana è la quasi totale mancanza di interesse storico e di una seria storiografia: la conoscenza del passato dell'India fino all'invasione musulmana rimane quasi esclusivamente affidata alle fonti epigrafiche.

La stessa storiografia tradizionale della filosofia indiana, il cui testo più noto è forse il Sommario dei sei sistemi filosofici di Haribhadrasuri (VIII secolo ca. d.C.) aveva un fine piuttosto polemico che storico. Gli « storici » indiani partivano dalla scuola ideologicamente più lontana dalla propria e, senza alcuna preoccupazione cronologica, accettando e criticando alternativamente le teorie delle diverse scuole, concludevano presentando il loro sistema come il culmine della verità.

Scarsissime e ricche di elementi leggendari sono pertanto le notizie che ci sono pervenute intorno ai singoli pensatori, di alcuni dei quali, anche fra i più importanti, possiamo difficilmente determinare persino il secolo e la regione in cui svilupparono il loro magistero culturale.

Dovendo perciò rinunciare a ricostruire la personalità spirituale (ed eventualmente l'impegno politico) dei filosofi indiani, saremo costretti anche noi a condurre la nostra esposizione secondo i « sistemi »: le correnti di pensiero cioè, che, iniziate in periodi antichissimi, si sono andate sviluppando nei secoli contemporaneamente le une alle altre, con alterne fasi di fioritura ed una profonda influenza reciproca, ed hanno trovato la definitiva sistemazione del loro corpus di dottrine nei primi secoli della nostra era. Dopo la fase creativa, compiuta in un periodo relativamente breve, i «sistemi » subirono un processo di codificazione e, potremmo dire, di irrigidimento ad opera di una sottile scolastica, che aveva come strumento principale una enorme letteratura di commenti.

Diversamente dalla filosofia greca, che fin dai filosofi presocratici ha come motivo principale la conoscenza e l'interpretazione della natura, la speculazione indiana cerca soprattutto di chiarire l'essenza dell'io ed il suo rapporto con il principio della realtà, e di preparare -- con la conoscenza -- la salvazione o la liberazione dell'individuo, il suo passaggio dal piano del samsara, la realtà dubbia che ci circonda, ossia il divenire fenomenico considerato l'origine del dolore, a quello del nirvana, cioè all'identità con l'assoluto.

Ciò spiega perché sia sempre stata minima in India la divisione fra religione e filosofia, e perché tutti i principali sistemi abbiano avuto, accanto a quella filosofica, una interpretazione strettamente religiosa.

Ma, se il carattere principale della speculazione indiana è l'interpretazione della filosofia come ascesi e del filosofo come santo, non si deve dimenticare -- ed è anzi ciò che più ci interessa — che, nello sviluppare le loro teorie della conoscenza intesa come « liberazione » e nelle aspre polemiche che li divisero, i pensatori indiani seppero associare ad una metafisica misticheggiante una serie di discussioni logiche ed epistemologiche di eccezionale rigore e profondità: in esse ritroviamo sia taluni significativi paralleli con la logica occidentale (dal sillogismo nyaya alla dialettica dell'asti-nasti-vada dei giainisti), sia taluni spunti di pensiero e suggerimenti di ricerca assai originali.

Prima di iniziare, con l'antica speculazione vedica, l'esposizione dei « sistemi » filosofici indiani, accenneremo ancora ad un interessante problema storico: i rapporti dell'India con l'occidente mediterraneo nell'antichità classica.

Non occorre giungere alla fortunata spedizione di Alessandro Magno per trovare punti di contatto tra il mondo greco e quello indiano: l'impero persiano aveva costituito infatti fin dai tempi più antichi il luogo di incontro piuttosto che di separazione delle due civiltà. Alla morte di Alessandro tale funzione passò ai Seleucidi, il cui dominio si estendeva appunto sui territori dell'antico impero di Dario. Fu un loro ambasciatore, Megastene, a dare nei suoi Indikà una descrizione accurata della corte di Ciandragupta (che regnò circa dal 313 al 289 a.C.) e dell'India fino ai suoi confini orientali. Durante il periodo imperiale romano i rapporti commerciali fra Mediterraneo ed India crebbero ancora, creando la fortuna economica e sociale di città come Alessandria; i romani stabilirono anzi in India degli empori commerciali, come quello scoperto nei dintorni di Pondichéry.

Anche in campo culturale gli scambi si fecero via via più intensi: Apollonio di Tiana compì un viaggio in India, e numerosi asceti indiani vennero in occidente, trovando un'accoglienza favorevole nel clima culturale e spirituale misticheggiante creatosi in Egitto ed in Siria nei primi secoli dell'era volgare. In realtà però, come afferma il Tucci, « né l'uno né l'altro pensiero filosofico ha influito notevolmente sull'altro nel senso di determinare nuovi Orientamenti e sviluppi. Se anche influssi non mancarono, essi rientrano nell'episodico e nel particolare. L'una tradizione filosofica si svolge nel suo insieme indipendentemente dall'altra, legata dal proprio passato alle correnti spirituali ed alle situazioni storiche nelle quali germinò o dalle quali fu nutrita. Tutt'al più la conoscenza dell'altra stimolò la ricerca, allargò gli interessi o servì di giustificazione all'accentuarsi di certe tendenze o correnti o propensioni del pensiero ».

Un brevissimo cenno merita infine il problema dei rapporti tra cultura indiana e cultura araba. E' noto che sul finire del x secolo ebbe inizio la conquista islamica dell'India, conquista i cui effetti politici si protrassero fino alla penetrazione inglese nel XVIII secolo. Ebbene, nemmeno un evento politico così importante riuscì a influire profondamente sul corso della filosofia indiana, scuotendo il processo di irrigidimento e inaridimento delle scuole, cui abbiamo poco sopra fatto cenno. La conquista musulmana fece bensì scomparire in modo quasi completo alcune correnti, come il buddismo, che avevano più forti manifestazioni religiose, ma — per aver sempre mantenuto stretti legami con i paesi d'origine e aver conservato l'arabo ed il persiano come lingue erudite della storiografia e della cultura — non seppe far confluire gli elementi più vivi dei vecchi « sistemi » indiani in un nuovo indirizzo di pensiero musulmano-indiano, capace di assumere un importante peso culturale.

I vecchi « sistemi », esercitando sugli invasori arabi un'influenza più religiosa che filosofica — come nel rigido monoteismo musulmano sikh — conservarono pressoché immutati i loro caratteri esposti nei diversi secoli in una serie di opere (in sanscrito) concepite come commenti agli antichi testi. Questa situazione si è protratta fino ai nostri giorni, fino a quando, cioè, il contatto con l'occidente non ha aperto un periodo di radicale ripensamento e di rapida trasformazione culturale.

L'ANTICA SPECULAZIONE VEDICA : « BRAHMANA » E « UPANISAD »


Preceduta dalla fiorente civiltà prearia, le cui tracce sono venute alla luce negli scavi di Mohenjo Daro e di Harappa, l'invasione indoeuropea (1500 ca. a.C.) aveva dato inizio in India ad una società la cui caratteristica più evidente era la rigida divisione in caste che si conserverà quasi immutata fino ai nostri giorni, con una serie di prescrizioni rituali e consuetudinarie proprie a ciascuna delle caste.

La speculazione religiosa ed i primi elementi della filosofia di questa società appaiono già nella « letteratura vedica », un insieme di opere tutt'altro che organiche ed omogenee, composte in un lungo lasso di tempo, dal II millennio fino al VII-VI secolo a.C.: le Sanihita, raccolte di inni e preghiere a varie divinità antropomorfiche, di cui sono particolarmente importanti gli inni del Rg-Veda; i Brahmana e le Upanisad, che contengono prescrizioni rituali e speculazioni sul testo delle Sambita; ed i Sutra, dove sono esposte tutte le principali regole religiose, giuridiche e morali della società brahamanica.

Vedremo come l'accettazione o meno della rivelazione vedica dividerà le scuole filosofiche indiane in ortodosse (samkhya -yoga, nyaya-vaisesika, mimamsa, vedanta) e non ortodosse (buddismo, giainismo, scuole materialistiche, scuole scivaite, ecc.); qui basti accennare a quegli elementi — che saranno caratteristici di tutto il pensiero indiano — che troviamo già presenti in questi testi, particolarmente nei Brahmana e nelle Upanisad.

Come abbiamo or ora ricordato i Brahmana e le Upanisad, in prosa e in versi, a volte in forma dialogica, pieni di intuizioni poetiche oscure ed ambigue che fanno di questa letteratura una delle più suggestive dell'India, discutono problemi di ritualistica e di religione. Il rito è innestato in una visione cosmogonica e cosmo­logica nella quale la mitografia delle Samhita trova ordine sotto un dio supremo, Prajapati, da cui il mondo nasce per emanazione. Cercando di definire la struttura delle cose si giunge pure ad una prima formulazione del dualismo psico-fisico attraverso la distinzione nell'uomo fra nama, il nome, sua essenza interiore, e rupa, la forma visibile della persona umana.

Ma il problema centrale di questa speculazione è quello della esistenza in noi di un principio essenziale per la nostra vita e quella dell'universo. Nelle Upanisad tale principio fu indentificato con l'atman, l'anima, che non è l'io apparente, ma il soggetto metempirico di ogni nostra azione e pensiero. L'atman non ha in sé differenza alcuna: sebbene presente in ciascuno di noi, esso è unico, immune dalla concatenazione spazio-temporale, al di là delle passioni, definibile soltanto negativamente. L'atman è identificato con il brahman, la forza misteriosa della preghiera, che nella speculazione dei Brahmana era assunto a sostanza originaria.

Come si può spiegare allora che l'atman, essenza del tutto ed eternità, possa degradarsi e limitarsi negli individui soggetti al divenire del mondo empirico? La ragione iniziale di questo processo ci rimane ignota; il suo meccanismo però già nelle Upanisad viene individuato nell'ignoranza e nell'azione, il karman, che porta con sé come conseguenza la concatenazione di pensieri e di eventi ed impedisce la conoscenza dell'antinomia fra atman e mondo empirico. Alla conoscenza di questa antinomia devono dunque tendere gli sforzi per liberarsi dal samsara, il giro delle esistenze in cui l'atman è trascinato, assumendo questo o quel corpo a seconda dei meriti e dei demeriti della vita precedente.


IL DUALISMO « SAMKHYA » E LE PRATICHE « YOGA »

Anche se la sua sistemazione filosofica risale ad un'epoca abbastanza recente, ed il primo testo della scuola giunto fino a noi, il Samkhya-karika, è forse del IV secolo dopo Cristo, la dottrina samkhYa è senza dubbio una delle più antiche dell'India.

Essa, astraendo completamente dall'esistenza di un dio, ritiene che esistano due realtà differenti ed ugualmente eterne: le anime individuali (purusa), molte­plici, intelligenti ma inattive, e la materia (prakrti), unica sebbene non semplice, combinazione dinamica di tre modi di essere: sattva (leggero, luminoso e piacevole), rajas (mobile, dinamico e doloroso) e tamas (inerte, ottuso ed ostacolante).

Proprio sull'opinione che tutte le cose del mondo empirico siano prodotte dalla perpetua agitazione e dal reciproco avvicendamento di sattva, rajas e tamas, il samkhya fondò una delle sue teorie più interessanti: quella della preesistenza dell'effetto nella causa. L'effetto non sarebbe altro che una trasformazione della causa,identico ad essa nella sua sostanza.

Il samsara e quindi il dolore sono determinati per il sistema samkkya dall'attribuire erroneamente all'anima qualità della materia, cioè dalla mancata « discriminazione » fra la psiche che è un particolare momento dell'evoluzione della materia — e l'anima.

Ma come può originarsi questa confusione, come possono comunicare due sostanze opposte e per natura incomunicabili quali le purusa e la prakrti? E' questa forse la maggiore difficoltà della filosofia samkhya, che ritiene non vi sia una vera e propria comunicazione, ma piuttosto un'influenza dovuta alla reciproca vicinanza: il puro spirito si rifletterebbe nella psiche senza riuscire più a distinguersi da essa, avvertendo anzi il dolore ed i difetti intellettuali e morali, limita zioni di cui per sua natura sarebbe libero.

Il dolore e la materia non avrebbero tuttavia un valore negativo: la materia è principio attivo « come la gente si dedica alle proprie azioni allo scopo di quietare i propri desideri, così anche la prakrti si svolge affinché l'anima possa
conseguire la liberazione » -- ed il dolore con la sua stessa presenza obbliga l'anima a cercare i mezzi per liberarsi.

La liberazione — che è il fine della dottrina samkhya come di quasi tutti i sistemi metafisici indiani -- si ottiene quando la psiche riconosce di essere derivata dalla prakrti: allora l'anima ritorna al suo stato di purezza, chiusa nella sua coscienzialità, al di là del piacere e del dolore
.

Convinto che la conoscenza fosse uno dei mezzi che possono condurre l'uomo sulla via della liberazione dal samsara, il sistema samkhya, che nutriva profondi interessi logici elaborò un'interessante teoria epistemologica. L'individuo, per effetto del rajas, sarebbe dotato di dieci sensi, cinque di percezione (vista, udito, olfatto, gusto, tatto) e cinque d'azione (che risiedono nella lingua, nei piedi, nelle mani, negli organi di escrezione ed in quelli di generazione). Le percezioni registrate dai sensi sarebbero raccolte e combinate da un undicesimo senso, il manas (intelletto) che, per essere in rapporto con gli altri sensi, è composto di parti. Il manas, senso di per sé indifferente, reagisce di volta in volta a seconda dello stimolo sensorio che riceve.

A rendere lo spirito capace di ricuperare la sua libertà ed autonomia, la filosofia samkhya raccomandava pure le pratiche yoga. Lo yoga era un altro sistema filosofico religioso molto antico — le sue origini si possono forse far risalire alle pratiche magiche dell'India prearia - la cui letteratura si incentra sugli Yogasutra attribuiti al grammatico Patanjali e composti, sulla base di testi più antichi, verso il V o VI secolo d.C.

Discostandosi dalla metafisica del sainkhya solo per l'ammissione di un dio (Isvara) che non è creatore, ma dirige teleologicamente l'attività della materia, per sé eterna ed increata, la scuola yoga influenzò profondamente con le sue ricerche mistico-psicologiche tutte le forme della religiosià indiana, ed ha avuto un notevole successo, negli ultimi anni, anche presso alcuni circoli inrrazionalisti dell'Europa e dell'America.

Per scoprire il nostro vero essere dietro la nostra personalità empirica ed illusoria occorre, secondo lo yoga, compiere un continuo sforzo psicofisico, seguire una disciplina che liberi la psiche da ogni memoria passata e produca il completo arresto delle funzioni della mente. La disciplina yoga comprende otto stadi successivi: i primi due (yama e niyama) consistono nell'astensione dall'offesa verso ogni creatura vivente, nella continenza, nel rispetto della verità, nel rifiuto di possedere ogni cosa non necessaria per il puro sostentamento, nell'indifferenza a tutti gli avvenimenti, nello studio dei testi sacri (i Veda) e nella devozione a dio. Il terzo stadio della prassi yoga (pranayama) consiste nella assunzione di posizioni convenienti alla meditazione e nel controllo del respiro; il quarto (pratyahara) nella riduzione della funzione dei sensi a semplice percezione senza partecipazione alcuna. Seguono lo sforzo di concentrare la mente su di un oggetto o su un'idea (dharana), l'attenzione continuata su di esso (dhyana) e la scomparsa del senso di dualità fra il contemplante e l'oggetto contemplato (samadhi). Nell'ultimo stadio della disciplina yoga, l'asamprajnata, si raggiunge l'assoluta quiescenza delle funzioni mentali e contemporaneamente l'estasi mistica, la coscienza della differenza essenziale fra l'anima e la psiche, e la liberazione dal ciclo del samsara.


L'ANIMISMO GIAINISTA

Due sistemi filosofico-religiosi, che cominciarono ad affermarsi in India nel vivace clima culturale del VI secolo a.C. (contemporaneamente, si noti, allo sviluppo degli interessi speculativi anche in Grecia e in Cina), rifiutavano la rivelazione vedica e la divisione in caste della società: il giainismo ed il buddismo.

Accanto a questi ed altri importanti elementi innovatori il giainismo conservava però, più di altre filosofie dell'India antica, alcuni caratteri molto arcaici : secondo la tradizione il mitico fondatore del movimento, Mahavira detto Jina (« vittorioso », da cui giainisti i suoi seguaci), non avrebbe che riordinato gli insegnamenti trasmessigli da ventitrè predecessori.

Il giainismo ebbe una rapida fortuna e, contendendo al buddismo il favore dei re, estese in pochi secoli la sua influenza su tutta l'India. Nel III secolo a.C. ebbe luogo un concilio, dopo il quale i giainisti si divisero in due gruppi: i « vestiti d'aria » (forse da collegare coi gimnosofisti ricordati dalla tradizione greca) i quali sostenevano che le opere canoniche erano andate perdute, ed i « vestiti di bianco » che invece riconoscevano undici gruppi di opere canoniche (anga). Le differenze fra i due gruppi furono in realtà piuttosto di disciplina che di dogmatica, ma già allora non doveva essere possibile stabilire con certezza quali opere risalissero a Mahavira e quali derivassero da una elaborazione posteriore.

Di fatto il canone giainista venne messo per iscritto solo fra la fine del V e l'inizio del VI secolo d.C., ed è notevole che esso ci sia stato tramandato in pracrito, una lingua dialettale, e non nella lingua dei Veda, il sanscrito.


I giainisti dividono la realtà in due gruppi opposti: la sostanza pensante (jiva) e la sostanza inanimata, priva di pensiero (ajiva). Con il jiva, la cui intelligenza si manifesta come conoscenza particolare, visione generale e beatitudine, si identificano le anime. Esse, prima di raggiungere la liberazione e diventare pura conoscenza e pura luce, sono legate al samsara per effetto del karman, l'atto. Il prevalere nelle anime legate al samsara di uno dei sei colori simbolici fondamentali condiziona la loro qualità e la loro sede.

L'ajiva, inanimata e priva di pensiero, è rappresentata secondo i giainisti da cinque sostanze: i) pudgala, la materia in senso corrente, oggetto di percezione del tatto, del gusto, dell'olfatto e del colore, che può presentarsi in forma atomica o di aggregato; a) dharma, sostanza indivisibile e senza forma, il principio del moto; 3) adharma, sostanza imponderabile, principio della quiete; 4) akasa, lo spazio, divisibile in un numero infinito di punti; 5) kala, il tempo, in virtù del quale le sostanze si modificano e mutano.

Assai esteso è anche il dominio della sostanza jiva, come si può vedere dalla classificazione che i giainisti fanno delle anime legate al ciclo samsarico, a seconda della quantità dei loro sensi : i) anime con un solo senso (il tatto), come tutto il regno vegetale ed i quattro elementi: terra, acqua, fuoco e aria; 2.) anime con due sensi (tatto e gusto), come i vermi ; 3) anime con tre sensi (tatto, gusto e olfatto), come le formiche; 4) anime con quattro sensi (tatto, gusto, olfatto e vista), come le api; 5) anime con cinque sensi (tatto, gusto, olfatto, vista e udito), come i mammiferi. Un sesto senso, l'intelletto (manas), è posseduto soltanto dall'uomo e dagli esseri divini. La condizione dell'uomo è particolarmente fortunata perché ormai prossima alla liberazione: solo l'uomo infatti è capace di praticare lo yoga che, assieme al tapas (pentimento), è necessario per spezzare i legami col samsara.

Ci siamo soffermati su queste divisioni non per il loro interesse classificatorio, ma per la prospettiva metafisica animistica che diede loro origine, e per le conseguenze morali che ne derivarono per i giainisti. Sulla classificazione delle anime si fonda il principio che ogni individuo è artefice della propria grandezza spirituale — anche gli esseri divini, prima di ottenere la salvazione finale, debbono nascere come uomini -; dal riconoscimento della parentela che lega tutti gli esseri viventi deriva la dottrina dell' ahimsa, la non violenza e l'amore universale, principio morale ripreso nell'India moderna da Gandhi.

Assai interessante è infine l'epistemologia elaborata nei secoli dai filosofi giainisti, stimolati alla logica soprattutto dai trattati buddisti. Secondo i giainisti, se si vuole comprendere a fondo la struttura complessa della realtà ultima, la si deve osservare da diversi punti di vista (i quattro fondamentali sono quelli di sostanza, luogo, tempo e forma). Bisogna stare ben attenti a non sopravvalutare una caratteristica particolare e farne la natura ultima della realtà. Ogni oggetto, ad esempio, può essere considerato permanente se osservato dal punto di vista della sostanza, mentre dal punto di vista della forma può essere mutevole.

Queste considerazioni sfociano nella teoria dialettica dell'asti-nasti-vada, secondo cui riguardo al medesimo oggetto si possono avere due proposizioni contraddittorie: osservando cioè una cosa da diversi punti di vista si può dire al contempo che essa è e non è, mentre da un solo punto di vista essa è o non è.
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