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 PLATONE 2

Andare in basso 
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Valentina




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MessaggioTitolo: PLATONE 2   PLATONE 2 Icon_minitimeMer Giu 30, 2010 5:16 am

L’anima percorrendo l’Iperuranio contempla le idee. L’anima si presenta con l’aspetto di una biga alata: un carro guidato in piedi da un auriga, che simboleggia l’anima razionale dell’uomo. A trainare la biga sono un cavallo bianco e un cavallo nero. Il cavallo nero, che è focoso , tende a portare fuori strada, a dare scossoni , a far sobbalzare la biga, e simboleggia l’anima concupiscibile, vale a dire la sfera degli istinti. L’altro cavallo, quello bianco, è un cavallo generoso, di buona razza, che però tende a correre un po’ troppo e dev’essere tenuto anch’esso a freno dall’auriga: corrisponde all’anima irascibile, cioè alle passioni. Che cosa vuole dire Platone con questo mito? Continuiamo prima di tutto con il racconto. L’anima compie il percorso nell’Iperuranio sotto forma di biga alata; se l’auriga non riesce a tenere bene a freno, a guidare bene con le briglie e con i morsi i due cavalli, tenderà ad andare fuori strada, ad avere tanti sobbalzi, a correre troppo: di conseguenza non potrà contemplare le idee. Arrivata alla fine di questo percorso l’anima precipita giù e si incarna in un corpo. In questo racconto fantastico si cela un significato profondo, che è questo: si possono contemplare le idee solo se si adopera la ragione, perché le idee sono l’universale; e la ragione è l’organo che appunto può afferrare l’universalità. Ma se la ragione è disturbata, è distratta dalle passioni o dagli istinti, se le passioni e gli istinti (per loro natura individuali) non sono tenuti a freno, guidati dalla ragione, l’auriga non potrà contemplare bene le idee. Non avendo contemplato bene le idee, quando si sarà incarnato in un corpo non le potrà ricordare con chiarezza. Che cosa significa che non le potrà ricordare bene? Si troverà di fronte a fatti individuali, a episodi, a dover compiere scelte, insomma vivrà la sua esperienza di uomo, ma non sarà in grado di far risalire quello che i sensi gli dicono alla sostanza ideale, si fermerà al particolare, al piccolo, al frammento, rimarrà chiuso in un orizzonte molto ristretto. Se invece, prima della nascita — ma questo prima della nascita vuol dire, in effetti, durante la vita — l’auriga è riuscito a guidare bene le passioni e gli istinti, e ha contemplato bene le idee, le saprà riconoscere bene nelle cose, sarà in grado di elevarsi dalla conoscenza sensibile alla conoscenza intellettuale, di passare dal particolare all’universale; sarà capace di avere uno sguardo d’assieme e potrà vivere una vita ispirata all’intelletto, ispirata alla conoscenza, alle idee, e quindi rivolta all’universale.
Le idee sono i modelli delle cose, ma sono soprattutto il bene. L’idea, cioè, è una struttura di carattere ontologico e gnoseologico — come abbiamo detto — ma è anche un valore in sé perché in fondo ogni idea è la perfezione, il bene, di quel determinato settore di realtà. ‘L’alberità’, cioè, è l’albero in sé, è il bene dell’albero, è la perfezione dell’albero; la giustizia con la ‘G’ maiuscola non ha niente della parziale imperfezione delle azioni giuste, o dei giudizi più o meno giusti che danno i giudici nei tribunali, è proprio la perfezione della giustizia. Le idee quindi sono non soltanto strutture ontologiche e gnoseologiche, ma anche strutture morali. Allora sostenere che «l’uomo che tiene a bada le passioni e gli istinti può conoscere bene le idee» vuol dire che può non soltanto conoscere bene, ma anche agire bene: tutte e due le cose insieme. Per Platone — come già per Socrate e per Pitagora — vale l’intellettualismo etico: il bene consiste nel sapere. Se si contemplano le idee ci si può comportare bene, cioè orientando la propria esistenza verso l’universale, ispirato dall’idea stessa. Il bene consiste nella contemplazione delle idee, premessa per il ben agire: si inizia ad intravedere perché sono i filosofi che devono reggere lo Stato. Il mito dell’Iperuranio fonda dunque non la metempsicosi, bensí la spiegazione del perché l’uno conosce di più, e l’altro conosce di meno, e illustra l’unione del conoscere con il bene. Se una persona vive una vita orientata all’interesse personale, all’egoismo, all’istinto, al soddisfacimento esclusivo dei propri bisogni e desideri, non conoscerà mai il bene. Potrà avere conoscenze di un altro genere (e che non sono vera conoscenza): conoscerà fatti empirici. Avrà il possesso di un sapere pratico, nozionistico, ma non avrà il sapere nel senso forte del termine, che è sempre, per Platone, un sapere anche del bene. Con Aristotele nascono invece le discipline particolari con la loro autonomia. Per Platone il sapere culmina nel sapere filosofico, che è il sapere del bene. Esso non può essere ristretto a una frazione dello scibile, sicché, per esempio, la matematica si occuperebbe di una cosa, la biologia di un’altra, la fisica di un’altra. Tutte queste discipline, in fondo, ciascuna nel proprio settore, devono risalire all’intelligibile, cioè devono risalire all’idea. Ma se risalgono all’idea, risalgono al bene. Quindi tutto il sapere è unificato e collegato alla dimensione morale, mentre, invece, oggi viviamo in una società in cui la scienza sta da una parte e la morale dall’altra, e le singole scienze pensano di occuparsi di realtà separate. Per Platone, il sapere è uno ed è strettamente collegato al bene, e quindi sono unite anche la vita teoretica, la conoscenza e la vita pratica, la morale.
Alcuni conoscono di meno e altri conoscono di più perché ci sono alcuni che conducono una vita di tipo più materialistico, egoistico, istintivo, passionale, ottuso, ecc. e altri che invece riescono a contemplare l’idea e a elevarsi alla conoscenza dell’universale. Ma, una volta conosciuto l’universale, quale sarà il nostro rapporto con esso? Platone è stato a torto accusato di essere un utopista, un sognatore; anche nel linguaggio corrente si dice ‘platonico’ per indicare un atteggiamento che non ha efficacia nella realtà. Il rapporto dell’uomo con l’idea è illustrato Platone con un altro mito: il mito di Eros, il mito che coglie l’essenza della filosofia, cioè l’essenza della dimensione umana. Eros — dice Platone nel Simposio, questo grandissimo dialogo considerato una delle più belle opere della letteratura mondiale — è il figlio di Penìa e Pòros, cioè il figlio della povertà e della ricchezza (in italiano i due nomi suonano entrambi femminili, ma in greco uno è femminile, l’altro è maschile; pòros significa ricco di risorse, ricco di espedienti). Eros è il dio che mette in moto gli uomini, che produce e anima la vita. Che cosa significa il fatto che questo dio nasce da povertà e ricchezza ed è l’ispiratore del comportamento umano? Il comportamento dell’uomo — se consideriamo l’Uomo con la ‘U’ maiuscola, cioè l’uomo che vuole essere consapevole di sé — si colloca in una situazione intermedia tra il non avere e l’avere, cioè tra il non avere conoscenza e l’avere conoscenza, tra l’essere ignorante e l’essere sapiente. La condizione dell’uomo è caratterizzata dal non essere né un animale, né un dio onnipotente; è una condizione intermedia. Da una parte c’è il pieno possesso dell’idea, il partecipare del mondo ideale e dall’altra c’è l’abbrutimento totale del mondo animale. L’uomo sta a metà tra queste due realtà, sa di non sapere, come ha detto Socrate: il mito di Eros costituisce una ripresa del tema socratico del sapere di non sapere. L’uomo è ignorante, ma qualche cosa la sa, non è completamente ignorante, allora il suo compito, la sua specificità, è quella di tendere verso la verità, verso l’ideale: l’idea funziona come un elemento di tensione per l’uomo. L’uomo non possiede l’idea pienamente, non vive nel mondo dell’Iperuranio, bensí nel mondo sensibile. Ma l’uomo sa — e lo sa sempre di più quanto più riflette, cioè quanto più è filosofo — che il mondo sensibile non è né il mondo della materia bruta pura e semplice, il mondo in cui soddisfare semplicemente gli istinti, il mondo ottuso dell’animale, né il mondo della perfezione divina, delle essenze ideali: sa che è un mondo intermedio, in cui all’interno del sensibile si scorge l’intelligibile. Quindi la caratteristica dell’uomo è di essere in cammino, cioè di essere animato da una tensione continua verso l’intelligibile, verso l’ideale, verso la perfezione, verso l’universalità. Superare tutte le inerzie che lo inchiodano al proprio egoismo, al proprio particolare e tendere verso l’universale, sia nella conoscenza, sia nella vita pratica: questo è il compito dell’uomo. L’idealismo platonico pertanto non implica il sogno; sono sbagliati sia il sogno, l’utopia, sia l’adagiarsi all’accettazione del mondo come è e il regolarsi automaticamente in base al come viene, in base a quello che fanno gli altri, a quello che dettano le mode, ecc. ecc. Non bisogna né pensare che il mondo sia tutto appiattito nell’immutabilità, né pretendere una perfezione che poi, siccome non riscontriamo in realtà, rinviamo su un piano di sogno, su un piano onirico. Viviamo in un mondo che è intermedio; la tensione nostra dev’essere quella ad avvicinare la realtà all’ideale. Lo sforzo di avvicinare la realtà all’ideale è l’essenza della Repubblica di Platone.
La Repubblica è un’opera di grande ricchezza di contenuti, ma ruota intorno a un concetto fondamentale: Platone sostiene che la repubblica deve essere animata dall’universale. L’universale, nella comunità umana, si risolve in una cosa molto concreta: la giustizia. Se la comunità deve essere giusta, ogni parte, ogni singolo individuo devono avere una loro proporzione, devono essere collocati bene. Tutto ciò che favorisce la sproporzione deve essere eliminato. Platone dice per esempio: «Se la virtù e il danaro si mettono sui piatti della bilancia l’una fa saltare l’altro»; cioè virtù e danaro stanno in opposizione tra di loro. Non si possono mettere tutti e due sulla bilancia perché altrimenti l’una fa saltare l’altro: se c’è la virtù non c’è il danaro, se c’è il danaro non c’è la virtù. Sostiene che la ricchezza non è qualche cosa che riguardi semplicemente il singolo individuo e non la polis, perché la ricchezza si traduce in potere, si proietta su un piano che va oltre se stessi e la propria famiglia e incide nella vita della comunità. La ricchezza deve essere eliminata perché sbilancia la vita della comunità e spinge l’individuo a una vita ottusa e rinchiusa in se stesso, rivolta non all’universale, ma al particolare. Per questo Platone respinge nella Repubblica la proprietà privata, almeno per coloro che sono destinati a reggere lo Stato. Sapete che Platone nello Stato vede un uomo in grande: la repubblica viene paragonata a un individuo di grandi proporzioni. Anche questo paragone ha un profondo significato: lo Stato precede gli individui. Mentre abbiamo visto che nei sofisti viene prima l’individuo e poi lo Stato, già Socrate, nel suo dialogo immaginario con le leggi nel Critone, si sottomette alle leggi, accetta di bere la cicuta — pur essendo innocente — perché riconosce una preesistenza delle leggi rispetto a lui, una sovranità delle leggi che non può essere contestata da lui come individuo, che anzi è nato perché esisteva lo Stato, cui deve tutto. Per Socrate e per Platone — contro i sofisti — lo Stato precede l’individuo. Lo Stato è come un individuo in grande: come l’individuo ha l’anima razionale, l’anima irascibile, l’anima concupiscibile, così lo Stato è composto da tre classi: i sapienti — cioè i filosofi, che dovranno essere i reggitori dello Stato; poi coloro che seguono la passione positiva del coraggio — i guerrieri, che saranno con i filosofi i custodi dello Stato; infine coloro che vivono in base all’anima concupiscibile (che può essere però, anch’essa, moderata dalla virtù della temperanza), gli artigiani, i produttori di merci materiali. Ora, Platone sostiene che se gli artigiani hanno proprietà privata, non è un grande danno, ma esclude la proprietà privata per i partecipanti alle classi dirigenti della società. Per questo egli è stato visto come un anticipatore del comunismo. In qualche modo lo è pure; secondo lui, cioè, la proprietà privata, e specialmente la proprietà privata che trasborda nella sfera pubblica, va evitata perché porta a uno squilibrio, alla rottura di quello che deve essere il principio regolativo della vita dello Stato: la giustizia. Diogene Laerzio nelle Vite dei filosofi racconta che gli abitanti di Cirene e poi quelli dell’Arcadia avevano offerto a Platone di diventare loro legislatore, di recarsi da loro per poter stendere una costituzione giusta. Platone avrebbe inviato lettere sia a Cirene, sia in Arcadia, in cui avrebbe detto pressappoco: «Vengo a compiere questo lavoro di codificazione se voi, però, accettate che nella costituzione sia compresa l’eliminazione della proprietà privata. Altrimenti non mi fate perdere tempo, perché questo è il primo requisito per uno Stato giusto». Sia la regione dell’Arcadia, sia Cirene respinsero questa ipotesi, e Platone non si cimentò con lo scrivere una costituzione precisa, ma delineò una sua Repubblica ideale. La Repubblica ideale non è da intendere come un’invenzione della mente umana. Per Platone l’idea della Repubblica è come l’idea di Bellezza e l’idea di Giustizia: è chiaro che non avrò mai la Repubblica ideale su questa terra, ma, come dovrò tendere a essere giusto nella mia esistenza privata, così, se sarò impegnato nella vita dello Stato, tenderò alla Repubblica ideale. È vero che non esiste una Repubblica ideale; ma non nel senso che è un’utopia, un sogno. Non esiste perché è l’obbiettivo a cui deve tendere la repubblica imperfetta in cui ci ritroviamo a vivere. Quindi operare per la repubblica, per lo Stato significherà cercare di avvicinarlo all’ideale platonico, e avvicinarlo all’ideale platonico significa avvicinarlo all’universale. Chi sarà in grado di fare questo? Platone risponde: soltanto il filosofo. Il filosofo chi è? È colui che scorge l’universale, ma soprattutto scorge non semplicemente il mondo delle idee, ma l’idea delle idee, cioè il Bene.
A questo punto possiamo leggere il passo 517 a-c della Repubblica: «Tutta questa immagine, caro Glaucone, continuai, si deve applicarla al nostro discorso di prima: dobbiamo paragonare il mondo conoscibile con la vista alla dimora della prigione, e la luce del fuoco che vi è dentro al potere del sole [si riferisce al mito della caverna]. Se poi tu consideri che l’ascesa e la contemplazione del mondo superiore equivalgono all’elevazione dell’anima al mondo intelligibile, non concluderai molto diversamente da me, dal momento che vuoi conoscere il mio parere. Il dio sa se corrisponde a vero. Ora, ecco il mio parere: nel mondo conoscibile, punto estremo e difficile a vedersi è l’idea del Bene; ma quando la si è veduta, la ragione ci porta a ritenerla per chiunque la causa di tutto ciò che è retto e bello...». Dalla conoscenza sensibile si passa a quella intellettuale, che culmina nell’idea del Bene, che è l’idea che unifica tutte le idee, perché ogni idea è il bene nella sua sfera. Per questo Platone dice che l’idea del Bene è come il sole del mondo intelligibile: è l’idea delle idee, è quella per cui tutte le idee sono la perfezione nel loro campo. Se le singole idee sono le matrici, le cause delle cose, l’idea del Bene è l’idea suprema che presiede a tutta la realtà. Poi continua: «... nel mondo visibile essa genera la luce e il sovrano della luce, nell’intelligibile largisce essa stessa, da sovrana, verità e intelletto». Quindi l’idea del Bene da una parte è una struttura della realtà, una struttura ontologica; però nell’intelligibile «largisce verità e intelletto», cioè è anche una struttura decisiva della mente dell’uomo. È una struttura oggettiva del mondo e una struttura soggettiva della mente. Poi Platone aggiunge: «E chi vuole condursi saggiamente in privato o in pubblico deve vederla». L’idea del Bene è dunque anche una guida per l’azione. Platone qui sta contestando punto per punto lo scritto di Gorgia Sul non essere. Gorgia infatti aveva sostenuto: «L’essere non esiste, se pure esiste non è conoscibile, se pure è conosciuto non è comunicabile». C’era uno scetticismo sul piano ontologico: l’essere non è; c’era un agnosticismo e uno scetticismo sul piano della conoscenza: seppure c’è non si può conoscere; inoltre, pure se fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile, cioè ognuno vive di per sé la sua vita perché non si può comunicare con gli altri, non c’è una vera intersoggettività. Intersoggettività significa comunicazione, ma significa anche comunità; per il sofista Gorgia non c’è vera vita comunitaria, ognuno vive in una sfera separata. In Gorgia, nello scritto Sul non essere, c’è scetticismo sulle strutture del mondo, sulle strutture conoscitive e sull’agire dell’uomo; qui invece Platone ribalta completamente la posizione e sostiene che: «C’è un fondamento preciso sia nella struttura della realtà, sia nella conoscenza, sia nella vita pratica». Questo orientamento comune a tutta la realtà è l’idea del Bene. Ora, come si farà a conoscere l’idea del Bene? Come si arriva a questa idea tra le idee? Attraverso la filosofia che, nella speculazione matura di Platone, si identifica con la dialettica.
“Dialettica” è un termine che ha avuto una grande fortuna nella storia della filosofia. In origine significa semplicemente dialogo, dialogare, scambiarsi idee; non è un caso che Platone, filosofo del dialogo, sia il filosofo della dialettica. Leggiamo ora la Repubblica, 533 c-d e 534 b - 535 a. Va prima rilevato che nella Repubblica, nel mito della caverna, si è delineato questo discorso: gli uomini vivono in una caverna, cioè nell’ottusità, nella sensibilità che dà loro false impressioni della realtà; poi si possono elevare: uscendo fuori della caverna vedono i riflessi delle cose — il che simboleggia la conoscenza matematica; infine sollevano lo sguardo, si abituano alla luce, che in un primo momento li abbaglia, e vedono gli oggetti, infine riescono a fissare il sole, che rappresenta l’idea del Bene, sole del mondo intelligibile. Platone vuol dire: non ci si può fermare alla conoscenza sensibile, anche se questa ha la sua dignità, e non ci si può fermare neppure alla conoscenza matematica, perché questa parte da ipotesi, cioè presenta una debolezza: è molto rigorosa, ma si fonda su postulati non dimostrati. Dobbiamo arrivare a una conoscenza superiore alla matematica, a una conoscenza anipotetica, cioè non ipotetica, e assolutamente sicura: e questa è la conoscenza che dà la dialettica. Non è facile dire in che cosa consiste la dialettica; ricorriamo di nuovo alle parole di Platone: «Ebbene, dissi io, il metodo dialettico è il solo a procedere per questa via, eliminando le ipotesi [quindi è superiore al metodo matematico che si fonda su ipotesi], verso il principio stesso, per confermare le proprie conclusioni; e pian piano trae e guida in alto l’occhio dell’anima, realmente sepolto in una specie di barbarica melma, valendosi dell’assistenza e della collaborazione di quelle arti che abbiamo considerate, arti che spesso abbiamo chiamato scienze, conforme all’uso, ma cui dobbiamo dare un nome diverso, più fulgido di ‘opinione’, più oscuro di ‘scienza’». Cosa vuol dire? Le altre scienze, le altre forme di conoscenza ci aiutano, ma non sono un fatto decisivo; le dobbiamo considerare qualche cosa di superiore all’opinione — perché l’opinione è pura e semplice soggettività — ma esse non giustificano i loro presupposti. Le scienze particolari fanno ricorso a categorie, strumenti concettuali, presupposti, metodi, che non sono dimostrati nell’ambito di quella scienza stessa, ma in ambito filosofico.
La conoscenza in senso forte deve eliminare le ipotesi, deve essere fondata su se stessa, e la conoscenza fondata su se stessa è solo la filosofia intesa come dialettica. Come farà la filosofia a eliminare le ipotesi? Confrontandole in base alla ragione tutte una ad una ed eliminandole una dopo l’altra. Come si farà a procedere a questa eliminazione? Ciò avviene in un dialogo (è importante notare che dialogo significa circolazione, scambio, di lògos, cioè di ragione) che può essere o un dialogo reale tra persone o un dialogo ideale con ipotesi diverse; le si mette a confronto fino a che ne rimane una sola, per eliminazione delle altre. Perciò il dialogo è così importante per Platone: «Ora, non chiami tu dialettico chi si rende ragione dell’essenza di ciascuna cosa?». Essere dialettico, essere filosofo vorrà dire cogliere l’essenza, cioè ciò per cui una cosa è quello che è e si distingue dalle altre, capire l’identità di ogni cosa; mentre invece chi vive nella melma, nel fango, cioè chi vive nell’opinione, chi vive nel sensibile, confonde tutto, non riesce a distinguere. Il filosofo, il dialettico sarà colui che riesce a distinguere le cose, a rendersi ragione dell’essenza di ciascuna di esse, della collocazione di ciascuna di esse nel contesto complessivo della realtà: «E chi non ne è capace, non negherai che, nella misura in cui non riesce a darne ragione a sé e ad altri, in tale misura ne abbia intelligenza? Per il bene è lo stesso. Considera il caso di chi non sa definire realmente l’idea del Bene, isolandola da tutto il resto [infatti definire l’idea del Bene significherà dire che cosa è il bene e che cosa lo distingue dal giusto, dal bello, dall’ingiusto, dal brutto, ecc. ecc., cioè coglierne l’identità precisa]; di chi, come in battaglia [qui la battaglia è il dialogo], superando ogni prova e sforzandosi di comprovare il suo punto di vista non secondo l’opinione, ma secondo l’essenza, non riesce tuttavia a superare tutti questi ostacoli con la sua ragione infallibile:...». Teniamo presente che per Platone la ragione è infallibile, cioè la ragione adoperata bene non può sbagliare. C’è un grandissimo orgoglio della potenza della conoscenza umana: l’uomo può entrare in contatto con le idee, con la realtà nelle sue strutture più profonde; però deve esercitarsi a eliminare tutte le ipotesi false, a vincere la battaglia contro le ipotesi non fondate. «... non dirai che un simile individuo non conosce il bene in sé, né alcun altro bene, ma che, se per caso ne coglie un’immagine, la coglie con l’opinione, ma non con la scienza?». Mi posso trovare a compiere un’azione buona senza saperlo, senza avere previsto che quello sarebbe stato bene e invece un’altra cosa sarebbe stata male, ma invece è importante avere una scienza del bene e non arrivarci per combinazione. «E che passa la sua vita presente in sogno e torpore e, prima ancora di risvegliarsi in questo nostro mondo, giunge nell’Ade per dormirvi un sonno completo?». Forse qui Platone aveva in mente i dormienti di Eraclito: chi agisce in base all’opinione, chi si affida a quello che non è fondato, chi non riesce a operare un’analisi critica delle situazioni, vive come in un sogno; come diceva con piglio critico Eraclito, chi usa il lògos vive da sveglio, gli altri, che non usano la ragione, e vivono in base all’opinione, vivono dormendo. Anzi Platone è ancora più sarcastico e dice: si abituano a vivere dormendo fino a che poi li raggiunge il sonno eterno, vegetano, si potrebbe dire, fino a che non cadono nel sonno eterno dell’Ade. «Si, per Zeus!, fece egli, affermerò tutto questo, e con energia. Allora quei tuoi ragazzi che ora così, a parole, allevi ed educhi, se giorno verrà che li alleverai effettivamente, non potrai lasciare, secondo me, che governino lo Stato e siano arbitri delle decisioni supreme, se sono estranei alla ragione come linee irrazionali [quindi devono essere compenetrati della ragione per governare lo Stato] — No, certamente, rispose. Imporrai loro per legge di coltivare specialmente quell’educazione che li renderà capaci di interrogare e di rispondere nel modo più scientifico? Ne farò una legge, rispose, d’accordo con te. Non credi, ripresi, che la dialettica, elevata com’è, possa essere per noi una specie di coronamento dei nostri studi? e che non si possa giustamente porre nessun’altra disciplina più in alto di essa? e che ormai sia terminata la trattazione delle discipline? Io si, rispose». La suprema disciplina è la scienza del bene, che implica il saper identificare il bene in ogni singola situazione. Chi possiede questa scienza del bene è il filosofo, per il fatto che si esercita nell’uso della ragione e cerca di capire in ogni situazione qual è il bene.
Può sembrare a una considerazione superficiale che il filosofo sia una specie di tiranno, oppure che ci sia in Platone una concezione aristocratica, ma non è così, perché il filosofo è filosofo fino a quando usa la ragione; nel momento in cui non usa più la ragione non è più filosofo e non è certo più adatto a governare. Qui non viene ipotizzata un’aristocrazia del sangue blu che si tramanda il potere per un accidente, appunto l’appartenenza a una stirpe: non ci si trova a governare perché si ha una caratteristica peculiare — invece di avere il sangue blu si ha la ragione. No. Il problema è questo: che se la ragione la si esercita, si è filosofi, e allora secondo Platone si individua il bene e si deve governare lo Stato; se si è presi dall’individualismo, dall’egoismo e non si esercita la ragione, si deve essere tenuti lontani dal potere. Non si tratta quindi di una teoria di carattere aristocratico, bensí di una teoria fondata su questa concezione: si può fare il bene se si conosce il bene, e si conosce il bene, che è l’idea suprema, se si conosce il mondo intelligibile mediante l’uso della ragione, la facoltà che mette chi è virtuoso, disinteressato, in contatto con l’universale. Se si conosce il bene si capisce qual è il senso del mondo: il bene è ciò che dà il senso alle cose. Solo chi conosce il senso del mondo, — anzi Platone usa un termine preciso: soltanto chi ha una ‘sinossi’, vale a dire (da orào e syn) una visione complessiva delle cose — può capire che cosa è il bene e quale è il bene in ogni determinata circostanza, e quindi è a lui che tocca governare. Se governa chi conosce il bene, i Socrate potranno sopravvivere nella polis: non ci sarà più un’Atene che sopprime il maggiore esponente della razionalità. A questo punto saranno i filosofi, gli emuli di Socrate, a governare la città; a questo bisogna tendere: che la ragione, l’universale, il disinteresse incarnati da Socrate siano nel cuore della polis, cioè nel cuore dello Stato.
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