Un importante tentativo di ridefinire l'oggetto (e di conseguenza i metodi) della psicologia nella prima metà del secolo fu quello comportamentista, che si proponeva di studiare il comportamento umano in prospettiva di "comportamenti osservabili", secondo un paradigma "stimolo-risposta", incluse le funzioni psichiche ed i processi mentali quali psicologia, memoria, percezione; le esperienze soggettive come i sentimenti, le emozioni, le aspettative, le motivazioni sia coscienti sia inconsce venivano invece programmaticamente escluse dal paradigma di ricerca comportamentista, che riteneva scientifico, utile ed euristico solo lo studio del comportamento manifesto (unità elementare di analisi del comportamentismo).
La nascita del comportamentismo viene abitualmente fatta risalire al "Manifesto" di Watson (1913), che pubblicò un articolo intitolato Psychology as the Behaviorist Views It; le sue prime parole impostano la filosofia di riferimento del paradigma di ricerca:
"La psicologia, per come è vista dal ricercatore comportamentista, è una branca sperimentale puramente oggettiva delle scienze naturali. Il suo obbiettivo teorico è la predizione ed il controllo del comportamento".
Il rifiuto comportamentista di occuparsi dei "processi mentali" (che nella loro metafora diviene una sorta di "black box", una scatola nera di cui è poco importante e forse impossibile comprendere il funzionamento interno, e di cui ci dovrebbero interessare solo gli Input - Stimoli e gli Output - Risposte), e di non riconoscere valore ai metodi basati sull'introspezione (propri dello strutturalismo e, seppur in un senso molto diverso, della psicoanalisi), era destinato ad avere enormi effetti sullo sviluppo delle metodologie di ricerca della psicologia sperimentale del Novecento.
Il lavoro di Watson venne proseguito da molti ricercatori, tra cui spicca il rigoroso sperimentalista Skinner, e diversi neocomportamentisti (che aprirono la strada al primo cognitivismo), tra cui Edward Tolman e Bartlett.