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 L'epicureismo

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L'epicureismo Empty
MessaggioTitolo: L'epicureismo   L'epicureismo Icon_minitimeMar Ago 17, 2010 10:36 am

Epicuro


Epicuro, figlio di Neocle, nacque nel gennaio o febbraio 341 a. C. a Samo e qui passò la giovinezza. Cominciò a occuparsi di filosofia a 14 anni. A Samo ascoltò le lezioni del platonico Pànfilo e poi del democriteo Nausítone. Da lui fu probabilmente iniziato alla dottrina di Democrito, del quale, per qualche tempo, si ritenne discepolo; e solo in seguito egli affermò la completa indipendenza della sua dottrina da quella del suo ispiratore che più tardi credette di poter designare col nome contraffatto di Lerocrito (chiacchierone).
A 18 anni, Epicuro si recò ad Atene. Non è dimostrato che abbia frequentato le lezioni di Aristotele e di Senocrate che era a quel tempo il capo dell'Accademia. Cominciò la sua attività di maestro a 32 anni, dapprima a Mitilene e a Lampsaco, e dopo alcuni anni ad Atene (307-6 a. C.), dove rimase fino alla morte (271-70).
La scuola aveva sede nel giardino (kepos) di Epicuro, sicché i seguaci si chiamarono «filosofi del giardino». L'autorità di Epicuro sui suoi discepoli era grandissima. Come le altre scuole, l'epicureismo formava un'associazione di carattere religioso; ma la divinità alla quale questa associazione era dedicata fu il fondatore stesso della scuola. «Le grandi anime epicuree – dice Seneca (Ep., 6) – non le fece la dottrina ma l'assidua compagnia di Epicuro». Sia durante la vita, sia dopo la morte di lui, gli scolari e gli amici gli tributarono onori quasi divini e cercarono di modellare la loro condotta sul suo esempio. «Compòrtati sempre come se Epicuro ti vedesse, era il precetto fondamentale della scuola (SENECA, Ep., 25). Epicuro fu autore di numerosi scritti, circa 300. A noi restano soltanto tre lettere conservateci da Diogene Laerzio (libro X): la prima diretta ad Erodoto, è una breve esposizione di fisica, la seconda, a Meneceo, è di contenuto etico, e la terza, a Pitocle, di attribuzione dubbia, tratta di questioni meteorologiche. Diogene Laerzio ci ha pure conservato le Massime capitali e il Testamento. In un manoscritto vaticano è stata trovata una raccolta di Sentenze; e nei papiri ercolanesi frammenti dell'opera Sulla natura.


La scuola epicurea


Il più notevole degli immediati discepoli di Epicuro fu METRODORO di Lampsaco, i cui scritti furono in massima parte di contenuto polemico. Ma i discepoli e gli amici di Epicuro furono numerosissimi e tra essi non mancarono le donne come TEMISTIA e l'etera LEONTINA, che scrisse contro Teofrasto. Alla scuola potevano infatti partecipare anche le donne, giacché essa era fondata sulla solidarietà e sull'amicizia dei suoi membri; e le amicizie epicuree furono per la loro nobiltà famose in tutto il mondo antico. Tuttavia nessuno dei discepoli ha apportato un contributo originale alla dottrina del maestro. Epicuro esigeva dai suoi seguaci la stretta osservanza dei suoi insegnamenti; e a questa osservanza la scuola epicurea si mantenne fedele per tutta la sua durata (che fu lunghissima, fino al IV secolo d. C.). Vanno ricordati perciò, tra i suoi numerosi discepoli, solo quelli attra verso i quali ci sono giunte ulteriori notizie intorno alla dottrina epicurea. Di FILODEMO, vissuto al tempo di Cicerone, i papiri ercolanesi ci hanno restituito alcuni frammenti che trattano numerosi problemi dal punto di vista epicureo e ci presentano la polemica che si svolgeva in quel tempo nell'interno stesso della scuola epicurea e tra essa e le altre scuole.

TITO LUCREZIO CARO ci ha lasciato nel suo De rerum natura non solo un'opera di grande valore poetico ma anche un'esposizione fedele dell'epicureismo. Poco si sa della vita di Lucrezio. Egli nacque probabilmente il 96 a. C. e morì nel 55 a. C. La notizia, tramandataci da scrittori cristiani, che egli sia stato paz zo e abbia scritto il suo poema negli intervalli della follia, può essere un'invenzione dovuta all'esigenza polemica di screditare il massimo rappresentante latino dell'ateismo epicureo; e in ogni caso è resa poco verosimile dalla causa che viene addotta della pazzia del poeta: un filtro amoroso. I sei libri dell'opera di Lucrezio (che è incompiuta) si dividono in tre parti, dedicate rispettivamente alla metafisica, all'antropologia e alla cosmologia, ognuna delle quali comprende due libri. Nel primo e secondo libro si tratta dei principi di tutta la realtà, della materia, dello spazio e della costituzione dei corpi sensibili. Nel terzo e quarto libro, si tratta dell'uomo. Nel quinto e sesto, dell'universo e dei più importanti fenomeni fisici. L'opera fu edita da Cicerone, che dovette un po' riordinarla, dopo la morte di Lucrezio. Lucrezio vede in Epicuro colui che ha liberato gli uomini dal timore del soprannaturale e della morte. Questo compito appare a Lucrezio così grande che egli non esita a esaltare Epicuro come una divinità e a riconoscerlo come il fondatore della vera sapienza.

Al II secolo d. C. appartenne quel DIOGENE da ENOANDA (Asia Minore) un cui scritto scolpito su blocchi di pietra si è trovato nel 1884. Queste iscrizioni rivelano una dottrina perfettamente conforme a quella originale di Epicuro e la sola novità è la difesa dell'epicureismo contro altri indirizzi filosofici e specialmente contro i dialoghi platonici di Aristotele.


Caratteri dell'epicureismo


Epicuro vede nella filosofia la via per raggiungere la felicità, intesa come liberazione dalle passioni. Il valore della filosofia è dunque puramente strumentale: il fine è la felicità. Mediante la filosofia l'uomo si libera da ogni desiderio irrequieto e molesto; si libera pure dalle opinioni irragionevoli e vane e dai turbamenti che ne derivano. La ricerca scientifica diretta a investigare le cause del mondo naturale non ha un fine diverso. «Se non fossimo turbati dal pensiero delle cose celesti e della morte e dal non conoscere i limiti dei dolori e dei desideri, non avremmo bisogno della scienza della natura» (Mass. capit., 11). Il valore della filosofia sta dunque tutto nel fornire all'uomo un «quadruplice farmaco»: 1° Liberare gli uomini dal timore degli dèi, dimostrando che per la loro natura beata non si occupano delle faccende umane. 2° Liberare gli uomini dal timore della morte dimostrando che essa non è nulla per l'uomo: «quando ci siamo noi la morte non c'è, quando c'è la morte non ci siamo noi» (Ep. ad Men., 125). 3° Dimostrare l'accessibilità del limite del piacere cioè la facile raggiungibilità del piacere stesso. 4° Dimostrare la lontananza del limite del male, cioè la brevità e la provvisorietà del dolore.
In tal modo la dottrina epicurea manifestava chiaramente la tendenza dell'intera filosofia postaristotelica a subordinare la ricerca speculativa a un fine pratico, riconosciuto come valido indipendentemente dalla ricerca stessa; sicché a tale ricerca veniva ad essere negato il valore supremo che ad essa attribuivano i filosofi del periodo classico: quello di determinare essa stessa il fine dell'uomo e di essere, già come ricerca, parte integrante di questo fine.
Epicuro distinse tre parti della filosofia: la canonica, la fisica e l'etica. Ma la canonica era concepita in rapporto così stretto con la fisica che si può dire che le parti della filosofia sono per l'epicureismo soltanto due: la fisica e l'etica. In tutto il dominio della conoscenza il fine che bisogna aver presente è l'evidenza (enàrgheia): «la base fondamentale di tutto è l'evidenza» diceva Epicuro.


La canonica


Epicuro chiamò canonica la logica o teoria della conoscenza, in quanto la considerò diretta essenzialmente a dare il criterio della verità e quindi un canone, cioè una regola, per orientare l'uomo verso la felicità. Il criterio della verità è costituito dalle sensazioni, dalle anticipazioni e dalle emozioni. La sensazione è prodotta nell'uomo dal flusso degli atomi che si staccano dalla superficie delle cose (secondo la teoria di Democrito. Questo flusso produce immagini (éidola) che sono in tutto simili alle cose da cui sono prodotte. Da queste immagini derivano le sensazioni; dalle sensazioni derivano le rappresentazioni fantastiche che risultano dalla combinazione di due immagini diverse (come, per esempio, la rappresentazione del centauro deriva dall'unione dell'immagine dell'uomo con quella del cavallo). Dalle sensazioni ripetute e conservate nella memoria derivano pure le rappresentazioni generiche (o concetti) che Epicuro (come gli Stoici) chiamò anticipazioni. I concetti servono infatti ad anticipare le sensazioni future. Per esempio, se si dice «questo è un uomo» bisogna già avere il concetto di uomo, acquisito in virtù delle sensazioni precedenti.
Ora la sensazione è sempre vera. Difatti non può essere confutata da una sensazione omogenea, che la conferma, né da una sensazione diversa che, provenendo da un altro oggetto, non può contraddirla. La sensazione è dunque il criterio fondamentale della verità. Ma poiché anche i concetti o anticipazioni derivano da sensazioni, anch'essi sono veri e costituiscono insieme alla sensazione il criterio della verità. Infine il terzo criterio di verità è l'emozione, cioè il piacere o il dolore, che costituisce la norma per la condotta pratica della vita ed è perciò fuori del campo della logica.
L'errore che non può sussistere nelle sensazioni e nei concetti può susistere invece nell'opinione: la quale è vera se è confermata dalla testimonianza dei sensi o almeno non contraddetta da tale testimonianza; è falsa nel caso contrario. Attenendosi ai fenomeni, quali ci sono manifestati dalle sensazioni, si può con il ragionamento estendere la conoscenza anche a cose che alla sensazione stessa sono nascoste; ma la regola fondamentale del ragionamento è in questo caso il più stretto accordo coi fenomeni percepiti.
Nello scritto di FIL0DEMO, Sui segni, che espone le dottrine dell'epicureo ZENONE, maestro di Filodemo, la teoria del ragionamento induttivo è sviluppata e difesa contro gli attacchi degli Stoici. Gli Stoici dicevano che non basta constatare che gli uomini che ci sono intorno sono mortali per dire che in ogni dove gli uomini sono mortali: bisognerebbe stabilire che gli uomini sono mortali proprio in quanto uomini, per dare a quell'inferenza la sua necessita. Ma gli Epicurei rispondevano che, finché nulla si oppone alla sua conclusione, un'inferenza del genere, fondata sull'analogia, dev'essere ritenuta valida. Poiché tutti gli uomini che cadono nella nostra esperienza sono simili anche nei rispetti della mortalità, bisogna ritenere che siano simili, anche in questo rispetto, quelli che sono fuori della nostra esperienza (De signis, XVI, 16-29). In altri termini gli Epicurei ammettevano che l'induzione fosse un procedimento per analogia ( intendendosi per analogia l'identità di due o più rapporti): nel senso che una volta constatato che nella nostra esperienza una certa
qualita (ad esempio «mortale») si accompagna costantemente con altre qualità (quelle che costituiscono gli uomini) si può inferire che, anche là dove non giunge la nostra esperienza, questo rapporto si mantenga costante e cioè che alle altre qualità degli uomini si accompagni sempre quella di mortale (Ib., XX, 32 e sgg.). In tal modo essi presupponevano non già la necessaria somiglianza degli uomini, secondo la critica degli Stoici, ma la somiglianza, cioè l'uniformità, dei rapporti tra qualità o fatti: uniformità che più tardi sarà chiamata (da Stuart Mill) «uniformità delle leggi di natura», in quanto distinta da «uniformità di natura». Gli Epicurei partivano pure da un senso allargato dell'esperienza e affermavano di raccogliere «non solo i segni che appaiono a noi o che noi stessi sperimentiamo ma anche le cose che appaiono nell'esperienza altrui e che da essa possono essere prese». Ed anche in ciò si allontanavano dagli Stoici che riducevano l'esperienza al qui ed ora percepito e impiantavano, come si è visto, l'intera forza del ragionamento su questo qui ed ora.
Sul linguaggio Epicuro formulava per la prima volta una dottrina che è stata ripresa nei tempi moderni: il linguaggio è un prodotto naturale perché è l'espressione sonora delle emozioni che colgono gli uomini in determinate condizioni (DIOG. L., X, 75-76). E' la tesi che fu difesa nel XVIII secolo da Rousseau.


La fisica


La fisica di Epicuro ha lo scopo di escludere dalla spiegazione del mondo ogni causa naturale e di liberare così gli uomini dal timore di essere alla mercé di forze sconosciute e di misteriosi interventi. Per raggiungere questo scopo la fisica dev'essere: 1° materialistica, cioè escludere la presenza nel mondo di ogni «anima» o principio spirituale; 2° meccanistica, cioè avvalersi nelle sue spiegazioni unicamente del movimento dei corpi escludendo qualsiasi finalismo. Poiché la fisica di Democrito rispondeva a queste due condizioni, Epicuro la adottò e la fece sua, con scarse ed insignificanti modificazioni. Come gli Stoici, Epicuro afferma che tutto ciò che esiste è corpo perché solo il corpo può agire o subire un'azione. D'incorporeo, egli non ammette che il vuoto, ma il vuoto non agisce né patisce alcunché ma solo permette ai corpi di muoversi attraverso se stesso (Ep. ad Her., 67). Tutto ciò che agisce o subisce è corpo e ogni nascita o morte non è che aggregazione o disgregazione di corpi. Epicuro perciò ammette con Democrito che nulla viene dal nulla e che ogni corpo è composto di corpuscoli indivisibili (atomi) che si muovono nel vuoto. Nel vuoto infinito, gli atomi si muovono eternamente urtandosi e combinandosi tra loro. Le loro forme sono diverse; ma il loro numero, per quanto indeterminabile, non è infinito. Il loro movimento non ubbidisce ad alcun disegno provvidenziale, ad alcun ordine finalistico. Gli Epicurei escludono esplicitamente la provvidenza stoica e la critica a tale provvidenza costituisce uno dei temi preferiti della loro polemica. Contro l'azione della divinità nel mondo, essi argomentano prendendo lo spunto dall'esistenza del male. «La divinità o vuol togliere i mali e non può o può e non vuole o non vuole né può o vuole e può. Se vuole e non può, è impotente; e la divinità non può esserlo. Se può e non vuole è invidiosa, e la divinità non può esserlo. Se non vuole e non può, è invidiosa e impotente, quindi non è la divinità. Se vuole e può (che è la sola cosa che le è conforme) donde viene l'esistenza dei mali e perché non li toglie?» (fr. 374, Usener). Eliminata dal mondo l'azione della divinità, non rimangono, per spiegare l'ordine di esso, che le leggi che regolano il movimento degli atomi. A queste leggi nulla sfugge, secondo gli Epicurei; esse costituiscono la necessità che presiede a tutti gli eventi del mondo naturale.
Un mondo è, secondo Epicuro, «un pezzo di cielo che comprende astri, terre e tutti i fenomeni, ritagliato nell'infinito». I mondi sono infiniti; essi sono soggetti a nascita e a morte. Tutti si formano in virtù del movimento degli atomi nel vuoto infinito. Ma poiché Epicuro ritiene che gli atomi cadano nel vuoto in linea retta e con la stessa velocità, per spiegare l'urto, in virtù del quale si aggregano e si dispongono nei vari mondi, ammette una deviazione casuale degli atomi dalla loro traiettoria rettilinea. Questa deviazione degli atomi è l'unico evento naturale non sottoposto a necessità. Essa, come dice Lucrezio, «spezza le leggi del fato». In questo mondo, dal quale è stata eliminata ogni traccia di potenze divine, Epicuro ammette tuttavia l'esistenza delle divinità. E l'ammette in virtù del suo stesso empirismo: perché gli uomini hanno l'immagine della divinità; e quest'immagine, come ogni altra, non può essere stata in loro prodotta che da flussi di atomi emanati dalle divinità stesse.
Gli dèi hanno la forma umana, che è la più perfetta e quindi la sola degna di esseri razionali. Essi intrattengono gli uni con gli altri un'amicizia analoga a quella umana; ed abitano gli spazi vuoti tra mondo e mondo (intermundi). Ma non si curano né del mondo né degli uomini. Ogni cura di questo genere sarebbe contraria alla loro perfetta beatitudine giacché imporrebbe loro un obbligo ed essi non hanno obblighi, ma vivono liberi e beati. Perciò il motivo per cui l'uomo saggio li onora non è il timore, ma l'ammirazione della loro eccellenza.
L'anima è, secondo Epicuro, composta di particelle corporee che sono diffuse in tutto il corpo come un soffio caldo. Tali particelle sono più sottili e rotonde delle altre, e quindi più mobili. Le facoltà dell'anima, come si è visto, sono fondamentalmente tre: la sensazione in senso proprio; l'immaginazione (mens, secondo Lucrezio) che produce le rappresentazioni fantastiche; la ragione (logos) che è la facoltà del giudizio e dell'opinione. A queste facoltà teoretiche, si aggiunge l'emozione, piacere o dolore, che è la norma della condotta pratica. La parte irrazionale dell'anima, che è il principio della vita, è diffusa in tutto il corpo.
Con la morte gli atomi dell'anima si separano ed ogni possibilità di sensazione cessa: la morte è «privazione di sensazioni». Perciò è stolto temerla: «Il più terribile dei mali, la morte, non è nulla per noi perché quando ci siamo noi non c'è la morte, quando c'è la morte noi non ci siamo» (Ep. ad Men., 125).


L'etica


L'etica epicurea è in generale una derivazione di quella cirenaica. La felicità consiste nel piacere: «il piacere è il principio e il fine della vita beata», dice Epicuro. Il piacere è infatti il criterio della scelta e dell'avversione: si tende al piacere, si sfugge il dolore. Esso è pure il criterio con il quale valutiamo ogni bene. Ma vi sono due specie di piaceri: il piacere stabile, che consiste nella privazione del dolore, e il piacere in movimento, che consiste nella gioia e nell'allegria. La felicità consiste soltanto nel piacere stabile o negativo, «nel non soffrire e nel non agitarsi» ed è quindi definita come atarassia (assenza di turbamento) e aponia (assenza di dolore). Il significato di questi due termini oscilla tra la temporanea liberazione dal dolore del bisogno e l'assoluta mancanza di dolore. In polemica con i Cirenaici che affermavano la positività del piacere, Epicuro esplicitamente dice che «il culmine del piacere è la pura e semplice distruzione del dolore».
Questo carattere negativo del piacere impone la scelta e la limitazione dei bisogni. Epicuro distingue i bisogni naturali e quelli inutili; dei bisogni naturali alcuni sono necessari, altri no. Di quelli che sono naturali e necessari, alcuni sono necessari alla felicità, altri alla salute del corpo, altri alla vita stessa. Solo i desideri naturali e necessari vanno appagati, gli altri vanno abbandonati e rimossi. L'epicureismo vuole quindi non l'abbandono al piacere, ma il calcolo e la misura dei piaceri. Bisogna rinunciare ai piaceri da cui deriva un dolore maggiore e sopportare anche a lungo i dolori da cui deriva un piacere maggiore. «Ad ogni desiderio bisogna porre la domanda: che cosa avverrà, se esso viene appagato ? Che cosa avverrà se non viene appagato? Soltanto l'accorto calcolo dei piaceri può far sì che l'uomo basti a se stesso e non divenga schiavo dei bisogni e della preoccupazione per l'indomani. Ma questo calcolo può esser dovuto solo alla saggezza (frònesis). La saggezza è anche più preziosa della filosofia, perché da essa nascono tutte le altre virtù e senza di essa la vita non ha né dolcezza, né bellezza, né giustizia» (Ep. ad Men., 132). Le virtù, e specialmente la saggezza che è la prima e fondamentale di esse, appaiono così ad Epicuro come la condizione necessaria della felicità. Alla saggezza è dovuto il calcolo dei piaceri, la scelta e la limitazione dei bisogni e quindi il raggiungimento dell'atarassia e dell'aponia.
In un passo famoso dello scritto Sul fine, Epicuro afferma esplicitamente il carattere sensibile di tutti i piaceri. «Per mio conto – egli dice – io non so concepire che cosa è il bene, se prescindo dai piaceri del gusto, dai piaceri d'amore, dai piaceri dell'udito, da quelli che derivano dalle belle immagini percepite dagli occhi e in generale da tutti i piaceri che gli uomini hanno dai sensi. Non è vero che solo la gioia della mente è un bene; giacché la mente si rallegra nella speranza dei piaceri sensibili, nel cui godimento la natura umana può liberarsi dal dolore». E chiaro qui che il bene è ristretto all'ambito del piacere sensibile al quale appartiene anche il piacere che si ricava dalla musica («i piaceri dei suoni») e dalla contemplazione della bellezza («piaceri delle belle immagini »); e che il piacere spirituale è ricondotto alla speranza dello stesso piacere sensibile. Forse l'impostazione polemica del frammento (probabilmente diretto contro il Protrettico di Aristotele, che platonicamente esaltava la superiorità del piacere spirituale), ha condotto Epicuro ad accentuare la sua tesi della sensibilità del piacere; ma è chiaro che questa tesi deriva necessariamente dalla sua dottrina fondamentale che fa della sensazione il canone fondamentale della vita dell'uomo. Che il vero bene non sia il piacere violento, ma quello stabile dell'aponia e dell'atarassia, non è cosa che contraddica alla tesi della sensibilità del piacere, perché l'aponia è «il non soffrire nel corpo» e l'atarassia è «il non essere turbati nell'anima» dalla preoccupazione del bisogno corporeo.
Ma con ciò la dottrina di Epicuro non si può confondere con un volgare edonismo. Contraddirebbe a tale edonismo il culto dell'amicizia che fu caratteristico della dottrina e della condotta pratica degli Epicurei. «Di tutte le cose che la saggezza ci offre per la felicità della vita, la più grande è di gran lunga l'acquisto dell'amicizia» (Mass. cap., 27). L'amicizia è nata dall'utile, ma essa è un bene per sé. L'amico non è chi cerca sempre l'utile né chi non lo congiunge mai all'amicizia: giacché il primo considera l'amicizia come un traffico di vantaggi, il secondo distrugge la fiduciosa speranza di aiuto che è tanta parte dell'amicizia (Sentenze Vaticane, 39, 34, Bignone).
Contraddirebbe pure a quell'edonismo l'esaltazione della saggezza. Sarebbe certo meglio, secondo Epicuro, che la saggezza fosse resa in ogni caso prospera dalla fortuna; ma è sempre preferibile la saggezza sfortunata alla dissennatezza fortunata (Ep. ad Men., 135). Sebbene la giustizia sia soltanto una convenzione che gli uomini hanno stretta fra loro per la comune utilità, cioè per evitare di farsi reciprocamente danno, è ben difficile che il saggio si lasci andare a commettere ingiustizia anche se è sicuro che il suo atto rimarrà nascosto e che perciò non gli arrecherà danno. «Chi ha raggiunto il fine dell'uomo, anche se nessuno è presente, sarà ugualmente onesto» (fr. 533, Usener).
L'atteggiamento dell'Epicureo verso gli uomini in generale è definito dalla massima: «E non solo più bello ma anche più piacevole fare il bene anziché riceverlo» (fr. 544). In questa massima il piacere assurge addirittura a fondamento e a giustificazione della solidarietà fra tutti gli uomini. E difatti Diogene Laerzio ci testimonia l'amore di Epicuro per i genitori, la sua fedeltà agli amici, il suo senso di solidarietà umana (X, 9).
Quanto alla vita politica, Epicuro riconosceva i vantaggi che essa procura agli uomini, tenendoli obbligati a leggi che impediscono loro di nuocersi a vicenda. Ma consigliava al saggio di rimanere estraneo alla vita politica. Il suo precetto è: «vivi nascosto» (fr. 551). L'ambizione politica non può essere che fonte di turbamento e quindi ostacolo al raggiungimento dell'atarassia.
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