L’epoca immediatemente successiva alle prime crociate, si caratterizza per un forte incremento del commercio interno ed internazionale. Il Mediterranneo rappresenta il crocevia principale degli scambi tra Oriente ed Occidente e viceversa. Protagoniste di questi scambi furono le quattro Repubbliche Marinare di Genova, Venezia, Pisa e Amalfi. Nello stesso bacino, operarono con buon successo anche le città marittime della Francia meridionale e della Catalogna; fra queste erano particolarmente attive Marsiglia e Barcellona. I porti del Mediterraneo orientale erano il punto di arrivo delle merci provenienti dalla via della seta, che dalla Cina, attraversando l’Asia centrale e la Persia, terminava il suo percorso in Asia Minore e in Siria. Un’altra importante via commerciale partiva dall’India e l’Estremo Oriente, passando per il Mar Rosso e quindi ancora per via terra fino a raggiungere Alessandria d’Egitto. Le navi provenienti dall’Italia caricavano le merci nei porti di Trebisonda, Costantinopoli, Alessandria d’Egitto e negli altri porti del Levante; si trattava in massima parte di merci molto preziose e rare provenienti dalle varie zone dell’Asia: zucchero, cotone, medicinali, essenze profuamte, incenso, preziose sete cinesi, fili d’oro e d’argento provenienti dall’Asia Anteriore, stupendi tappeti persiani, avorio africano, porcellane cinesi, perle e pietre preziose indiane e molte altre merci rare. Tutti questi prodotti di lusso potevano essere acquistati solo da pochi, dato il loro costo di mercato, dando quindi origine ad un modesto volume di traffico. Questo traffico era concentrato in poche città, principalmente Genova e Venezia, che poi provvedevano a far giungere in tutta Europa questi prodotti, ottenendo guadagni favolosi. In cambio di queste merci, l’Occidente inviava panni di lana, armi, vini pregiati, oli, e legname; ma in genere queste merci non valevano tanto da controbilanciare il valore delle importazioni e pertanto la differenza doveva essere pagata in oro e argento, indebolendo quindi l’Europa di questi metalli. Fiorente era anche il mercato degli schiavi, che venivano acquistati nella Russia meridionale e poi rivenduti sui mercati orientali. Nell’altra importante area commerciale, il Mare del Nord, le città tedesche e fiamminghe avevano un ruolo primario; esse esportavano i loro prodotti industriali, importando il legname e il catrame dei boschi del Nord necessari per l’allestimento delle navi delle proprie flotte, pelli e lana dall’Inghilterra, pellicce, cuoio e suini dalla Russia, pesce salato e affumicato dai paesi del Nord. Oltre ad effettuare questi traffici, gli armatori di Brema, Amburgo, Lubecca e Amsterdam distribuivano tutte le merci provenienti dal Mediterraneo. Essi proponevano quindi un tipo di commercio diversificato: non solo merci pregiate, ma anche materie prime utili allo sviluppo dell’industria e prodotti di prima necessità e quindi con un maggiore bacino d’utenza. Pur esendo inferiore come traffico a quello del Mediterraneo, esso riuscirà a conservarsi per poi rifiorire in epoca moderna permettendo così lo sviluppo dell’Europa settentrionale, nel momento in cui il commercio sul mediterraneo entrerà in crisi. Queste due grandi aree commerciali erano unite tra loro da due collegamenti principali: il primo, attraverso i passi alpini, collegava Venezia e l’Italia con la città di Augusta, il fiume Reno e la Germania; il secondo vedeva le navi genovesi e veneziane, circumnavigare Spagna, Portogallo e Francia, per portare le loro merci in Inghilterra e nelle Fiandre. Per la distribuzione all’interno dei vari paesi, si utilizzavano le vie dàacqua interne, ricorrendo alle vie di terra quando proprio non se ne poteva fare a meno. Era una tipologia di commercio resa difficile e pericolosa dalla scarsezza di strade e ponti in buone condizioni, dagli innumerevoli diritti di pedaggio richiesti dai feudatari ed infine a causa delle numerose bande di fuorilegge che non si facevano scrupolo di uccidere per procurarsi le ricchezze alle quali ambivano. Tutte queste cause portavano ad una levitazione dei prezzi, rallentando lo sviluppo del commercio. Nonostante i molti progressi nel settore, l’economia europea continuava ad essere un’economia naturale, nel senso che si consumava solo ciò che si produceva personalmente. Nelle città, gli stessi artigiani non disdegnavano di coltivare un proprio poderetto o allevare qualche animale domestico per i propri bisogni,dato che gli utili della propria professione non sempre garantivano di poterli soddisfare. Frequenti carestie erano dovute a cattivi raccolti o all’impossibilità d’importare derrate alimentari da altri paesi; Venezia, unica città che riusciva ad essere sempre abbondantemente rifornita di tutto ciò che era necessario alla vita, rappresentava un caso rarissimo nella stessa penisola italiana, che era il Paese più economicamente florido del Medioevo europeo. Nelle città, i mercanti costituivano proprie corporazioni che spesso erano le più importanti del Comune; in alcuni casi poteva capitare che si ritrovassero nella stessa corporazione artigiani e mercanti operanti nello stesso ramo di attività. Si diffusero poi unioni di mercanti operanti in città diverse, che vennero chiamate ghilde o hanse: la più famosa fu l’Hansa delle città renane e del Mare del Nord, che si trasformò in un’alleanza mercantile, politica e militare tra diverse città, disponendo inoltre di proprie flotte e di eserciti; nel periodo di maggiore potenza essa riunì oltre 80 città tedesche e fiamminghe. Una speciale forma di commercio fu quella relativa al denaro: la diversità tra le varie monete coniate da re, imperatori, feudatari e dalle città economicamente più importanti, rese necessaria la diffusione del nuovo mestiere del cambiavalute. Già dall’Alto Medioevo, i cambiatores furono fra i personaggi più ragguardevoli del commercio cittadino. Disponendo di grandi quantità di denaro liquido, essi iniziarono a prestarlo a tassi elevatissimi, gettando così le basi del sistema bancario. Ai cambiavalute si affiancarono i grossi mercanti, che ai proventi del commercio aggiunsero quelli derivanti dal prestito ad usura. L’esercizio del credito venne incrementato e favorito dall’estensione del commercio interno e internazionale, che comportò la necessità di spostare grandi quantità di denaro anche fra paesi lontani; quindi le grandi compagnie e le case commerciali, soprattutto quelle italiane, unirono con sempre maggiore continuità il commercio dei panni o quello delle spezie all’attività bancaria svolta a favore dei poropri clienti o di chiunque si fosse rivolto a loro. In Toscana quest’attività venne agevolata dal fatto che le banche e le case mercantili di Siena, Lucca ed in seguito soprattutto di Firenze, vennero incaricate di riscuotere l’obolo di San Pietro e le altre entrate della Curia romana all’estero. Inizialmente lo svolgimento delle attività bancarie venne attribuito agli Ebrei, essendo ad essi precluse, a causa delle persecuzioni in atto, tutte le altre attività economiche; in genere essi non riuscirono mai ad andare oltre al piccolo credito su pegno, mentre il grande credito fu quasi sempre ad appannaggio degli italiani, in modo particolare dei toscani, che in Francia ed in Inghilterra venivano chiamati lombardi. Ancora oggi molti termini del linguaggio bancario internazionale sono di chiara origine italiana. Ai banchieri italiani si affiancarono successivamente banchieri stranieri, come ad esempio i caorsini, che presero il nome dalla loro città d’origine, Caors, in Francia. I tassi d’interesse nel Medioevo erano altissimi e giungevano fino al 60% annuo, poichè la mancanza di sicurezza rendeva piuttosto improbabile la restituzione del prestito. A tutto questo occorre aggiungere che la Chiesa condannava il prestito a usura, ma questo ostacolo veniva aggirato facendo figurare gli interessi inclusi nel capitale, oppure concedendo il prestito per il primo mese senza interessi, ma inserendo nelle clausole di concessione un forte indennizzo per ogni mese di ritardo nella restituzione. Ma queste pratiche disoneste, unite agli alti tassi richiesti per i prestiti, comportarono un rallentamento dell’attività economica.